«Fai conto che è figlio a me, nessuno lo deve rimproverare». Con queste parole Gemma Donnarumma, 71 anni, vedova del boss storico di Torre Annunziata, imponeva il proprio potere nella gestione del clan. Non solo simbolo, ma vera e propria mente criminale, come la definisce il gip: da anni guidava un nucleo parallelo alle reggenze maschili del gruppo camorristico, con un’organizzazione autonoma dedita alle estorsioni e alla gestione delle risorse economiche.
Lo “stipendio” mensile e le estorsioni parallele
Secondo le indagini, Donnarumma riceveva dal clan 1.500 euro al mese, una cifra che riteneva non all’altezza del suo profilo criminale. Per questo aveva quindi creato una rete ristretta di fedelissimi, incaricati di riscuotere il “pizzo” fuori dai circuiti ufficiali, colpendo imprenditori e commercianti non “registrati” tra le vittime delle estorsioni controllate dai vertici maschili di Palazzo Fienga.
L’inchiesta e gli arresti
Le indagini, condotte dai carabinieri di Torre Annunziata e coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, sono durate due anni e hanno portato a 19 misure cautelari (18 in carcere, una ai domiciliari). Le prove decisive sono arrivate grazie a intercettazioni ambientali e telefoniche, rese possibili anche dall’utilizzo di virus informatici sui cellulari degli indagati.
Il triunvirato del clan
Al vertice della riorganizzazione criminale si trovava inoltre un triumvirato composto da:
Gaetano Amoroso (nipote di Donnarumma, che le consegnava lo stipendio),
Pasquale Romito,
Alfredo Savino.
Questi, secondo la Procura, avevano stretto alleanze strategiche con ex gruppi rivali, tra cui i Gallo-Cavaliere e i Gallo-Vangone-Limelli, per consolidare il controllo sul territorio e rafforzare i traffici illeciti.
Le accuse
Gli arrestati devono rispondere, a vario titolo, di:
Associazione di tipo mafioso,
Estorsione e tentata estorsione,
Detenzione e porto illegale di armi da fuoco,
Traffico di sostanze stupefacenti.
Donnarumma, la “mente” del clan
Secondo l’ordinanza, Donnarumma avrebbe assunto anche il ruolo di mediatore tra affiliati detenuti e liberi, e avrebbe cercato di sostenere economicamente il marito in carcere, mantenendo saldo il controllo del clan e scongiurando fratture interne.