Saranno circa 170mila i lavoratori che nel 2027 vedranno slittare la data della pensione di almeno tre mesi, a causa dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita. È quanto emerge dai flussi di pensionamento per età dell’Inps e dal monitoraggio sulle uscite previdenziali, che fotografano l’impatto del prossimo scatto previsto dalla legge Fornero.
L’innalzamento dell’età pensionabile
A partire dal 1° gennaio 2027, l’età minima per accedere alla pensione di vecchiaia salirà da 67 a 67 anni e 3 mesi.
Il meccanismo di aggiornamento automatico, introdotto nel 2011, lega il requisito anagrafico all’aumento della speranza di vita media calcolata dall’Istat.
La misura riguarderà soprattutto i lavoratori nati nel 1960 o poco dopo, che pur avendo maturato 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne) non avranno ancora compiuto l’età minima richiesta.
Effetti economici e sociali
Lo slittamento di tre mesi garantirà allo Stato un risparmio strutturale stimato in circa tre miliardi di euro l’anno, una cifra considerata strategica in un contesto di vincoli di bilancio europei e di pressione sulla spesa pubblica.
Tuttavia, la misura ha un costo sociale elevato: molti lavoratori che si preparavano a lasciare il lavoro si vedranno costretti a prolungare la permanenza in servizio, nonostante condizioni fisiche o familiari spesso difficili.
Le ipotesi allo studio del Governo
Per attenuare l’impatto del provvedimento, il Governo sta valutando correttivi e soluzioni intermedie.
Tra le ipotesi:
Congelamento selettivo dello scatto per chi abbia già compiuto 64 anni al momento dell’entrata in vigore della norma;
Incremento graduale dell’età pensionabile, distribuito su più anni;
Esenzioni mirate per categorie di lavoratori impegnati in mansioni usuranti o con carriere contributive lunghe e continue.
Tutte le opzioni, tuttavia, richiedono coperture finanziarie certe e rischiano di creare disparità di trattamento tra categorie diverse.
I nodi aperti e le reazioni
I sindacati hanno espresso forte contrarietà, definendo il nuovo scatto “una riproposizione aggravata della legge Fornero”, e chiedono misure di equità per chi non può proseguire l’attività lavorativa per ragioni di salute o di usura fisica.
Anche nella maggioranza di governo emergono posizioni divergenti: da un lato chi invoca flessibilità in uscita, dall’altro chi sottolinea la necessità di tutelare la sostenibilità del sistema previdenziale.
La questione sarà centrale nella Legge di Bilancio 2026, che dovrà stabilire se confermare lo scatto integrale, prevedere deroghe parziali o modulare le soglie con un meccanismo progressivo.
Chi rischia di più
A subire gli effetti maggiori saranno i lavoratori con carriere continue e regolari, soprattutto quelli nati nei primi anni Sessanta, esclusi da eventuali deroghe.
Le alternative già in vigore – come Quota 103, pensione anticipata contributiva e altri strumenti flessibili – restano accessibili a pochi e comportano tagli significativi sull’assegno.
Per chi ha percorsi discontinui o carriere frammentate, le vie d’uscita si fanno ancora più strette, ampliando il divario tra chi può permettersi un’uscita anticipata e chi dovrà lavorare oltre i 67 anni.