La Procura regionale della Corte dei Conti per la Campania, guidata dal procuratore Antonio Giuseppone, ha avviato un’indagine per un presunto danno erariale di oltre 30,4 milioni di euro legato all’illecita gestione dei Titoli di Efficienza Energetica (TEE), noti come certificati bianchi. Il procedimento, condotto dai militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli, ha portato alla notifica di inviti a dedurre nei confronti di quattro soggetti: una società di capitali, all’epoca dei fatti con sede a Poggiomarino, nel Napoletano (poi fallita), e tre persone fisiche, amministratori di diritto o di fatto della stessa.
La frode sui certificati bianchi
Secondo gli inquirenti, la società avrebbe attuato un articolato schema fraudolento, consistente nella falsa attestazione di interventi di efficientamento energetico – come l’isolamento termico di pareti e coperture – mai realmente eseguiti. I lavori risultavano commissionati per conto di soggetti terzi, ma si sono poi rivelati totalmente fittizi.
Nonostante l’assenza di interventi reali, la società sarebbe riuscita a ottenere dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE S.p.A.) ben 138.074 certificati bianchi, successivamente ceduti sul mercato a soggetti terzi, ignari della frode. Questi ultimi, a loro volta, avrebbero presentato i titoli al GSE ottenendo contributi economici non dovuti, generando così un danno patrimoniale diretto all’erario.
Il GSE, società interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, gestisce il sistema dei certificati bianchi tramite la Cassa per i Servizi Energetici e Ambientali. I TEE sono strumenti di incentivazione rilasciati alle aziende che dimostrano di aver realizzato interventi in grado di garantire risparmi energetici. Tali titoli possono poi essere venduti alle società di distribuzione di energia elettrica o gas, tramite mercato regolamentato o accordi bilaterali.
Le verifiche e le prove della frode
A supporto delle ipotesi investigative vi sono anche gli esiti di una parallela indagine penale condotta dalla Procura della Repubblica di Treviso. In quel contesto, sono emerse ulteriori anomalie: diversi comuni interpellati hanno riferito che i titoli abilitativi indicati nelle richieste di certificazione non risultavano depositati presso i rispettivi uffici tecnici.
Inoltre, i rappresentanti legali delle imprese a cui sarebbero affidati i lavori hanno disconosciuto le fatture emesse, dichiarando di non avere mai effettuato quegli interventi. In alcuni casi, sarebbero stati persino utilizzati nomi di fantasia per identificare i luoghi dei presunti lavori, aggravando ulteriormente il quadro probatorio.