La rivalutazione delle pensioni all’inflazione nel 2026 potrebbe costare alle casse dello Stato circa 5 miliardi di euro. Il tasso di inflazione accumulato finora è pari all’1,7%, ma l’impatto finale dipenderà dalle risorse effettivamente disponibili e dalle scelte del governo. Come già avvenuto negli scorsi anni, è probabile che gli aumenti pieni vengano riconosciuti soltanto per le pensioni più basse, mentre gli assegni più elevati subiranno una rivalutazione parziale.
Quanto costerebbe la rivalutazione piena
Se l’1,7% venisse applicato indistintamente a tutte le pensioni, la spesa supererebbe i 6 miliardi di euro. Applicando invece le regole attuali, che prevedono percentuali decrescenti a seconda dell’importo dell’assegno, l’onere scenderebbe a circa 5 miliardi.
La spesa pensionistica complessiva, considerando anche le prestazioni assistenziali, è stimata per il 2026 in circa 355 miliardi di euro, un livello record.
Le regole di rivalutazione
Il sistema vigente prevede:
Pensioni fino a quattro volte il minimo (circa 2.466 € lordi al mese): rivalutazione piena al 100%.
Pensioni tra quattro e cinque volte il minimo (da 2.413 a 3.017 € lordi mensili): rivalutazione al 90% del tasso d’inflazione (1,53% con i dati attuali).
Pensioni oltre cinque volte il minimo (oltre 3.017 € mensili): rivalutazione al 75% del tasso (1,27% al momento).
Esempi di aumento mensile stimato:
Pensione minima (616,67 € con maggiorazione): +10,50 € circa.
800 €: +13 € lordi.
1.400 €: +23 € lordi.
2.000 €: +34 € lordi.
3.000 €: +46 € lordi.
5.000 €: +63 € lordi.
La questione davanti alla Consulta
Il meccanismo di perequazione automatica è ora al vaglio della Corte costituzionale. Il tribunale di Trento ha infatti sollevato dubbi di legittimità sul sistema introdotto dalle Leggi di Bilancio 2023 e 2024, perché applica la riduzione non a scaglioni, ma all’intero importo della pensione.
La decisione della Consulta potrebbe avere un impatto significativo sulla rivalutazione 2026, aprendo la strada a possibili modifiche del meccanismo.





