Per la Cassazione, «nell’intersecarsi di esigenze tutte costituzionalmente correlate (il diritto alla salute per un verso, cui si contrappone l’interesse pubblico sotteso ad un puntuale esercizio dell’attività di amministrazione della giustizia ed all’accertamento di fatti penalmente sanzionati), i valori legati alla integrità fisica rendono necessariamente recessivi quelli contrapposti e finiscono per imporre comunque l’intervento sanitario».

Secondo la Suprema Corte, «in tema di favoreggiamento ascritto ad un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute». Per questa ragione, la Cassazione ha annullato senza rinvio le condanne per favoreggiamento emesse – in primo grado dal Tribunale di Torre Annunziata e confermate dalla Corte di Appello di Napoli – nei confronti di due medici, Luigi Acanfora di Pompei e Mario Trerè di Boscorale ed ex consigliere comunale, che si erano prodigati ad assistere a domicilio un camorrista senza mettere a rischio la sua clandestinità.

Il primo camice bianco aveva ricevuto la richiesta d’aiuto per telefono e dato che l’intervento richiesto era estraneo alle sue competenze, aveva girato il caso a un collega chirurgo dopo averlo avvertito che la famiglia della persona interessata «non era buona». Il paziente era Fabio Prete di Boscoreale, allora 19 anni, rimasto ferito nel conflitto a fuoco in cui venne ucciso il giovane tenente Marco Pittoni all’interno dell’ufficio postale di Pagani, che il gruppo tentò di rapinare venendo poi fermato dall’intervento del povero carabiniere.

Il verdetto degli ermellini rileva che non vi è «dubbio sulla consapevolezza in capo agli imputati della situazione di illegalità in cui versava il paziente destinatario delle cure richieste», ma questa circostanza, lungi dal ritorcersi contro i due medici, «definisce, con ancora maggiore chiarezza, l’immediatezza e la non procrastinabilità delle cure mediche da prestare». Secondo la Cassazione, inoltre, i giudici di merito hanno sbagliato a condannare i medici perché li hanno voluti punire non per aver aiutato il camorrista ad eludere le indagini, ma per «non aver favorito le ricerche dell’Autorità» rifiutandosi di eseguire l’intervento a domicilio e facendo sì che il ferito si rivolgesse a una ospedale pubblico.

Alla fine Prete venne comunque arrestato due giorni dopo e fu proprio la ferita a fare capire agli investigatori che era stato operato da medici professionisti. Con lui finirono in carcere gli altri elementi del commando: Giovanni Fontana e Antonio Palma tutti condannati a 30 anni, ed un minorenne che invece deve scontare 17 anni.