Negli ultimi giorni di guerra, una giovane recluta finisce in un gruppo di veterani al comando di un carro armato americano. In territorio tedesco, mentre si dirigono verso Berlino, il ragazzo subirà una trasformazione che lo cambierà per sempre.
La cinematografia dedicata al secondo conflitto mondiale è vastissima. Basti pensare che questo filone, quello bellico, ha creato, al suo interno, decine di sottocategorie, come film incentrati sull’aviazione, marina, spionaggio, ecc. Fury, nuova fatica cinematografica dello statunitense David Ayer, invece, è ambientato, per il suo cinquanta per cento, in un carro armato. Macchine da guerra spietate e precise, quelle americane erano sovrastate da quelle più resistenti e tecnologiche dei tedeschi, che su questo “fronte” diedero filo da torcere agli alleati. In realtà un precedente cinematografico che potrebbe collegarsi benissimo al lavoro di Ayer, c’è: si tratta dell’intenso Lebanon diretto da Samuel Maoz del 2009, premiato con il Leone d’oro al 66ma edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e ambientato totalmente in un carro armato, mostrando la reazione dei soldati alla realtà esterna visibile solo attraverso il mirino del cannone. Operazione ingegnosa e coraggiosa, ben lontana però da Fury, che del carro armato, ha solo il titolo e (pochissima) ambientazione. L’operazione di raccontare (ancora?) la sanguinosa seconda guerra mondiale (se proprio se ne ha intenzione, se ne cerchi un filone alternativo e magari “scomodo”) e la campagna (finale) in Germania delle forze armate USA riesce, purtroppo, solo a metà. Se da un lato la regia evocativa e claustrofobica, dona ritmo e enfasi alla narrazione, purtroppo la sceneggiatura (scritta dallo stesso regista e che si era messo bene in mostra nella scrittura in quel capolavoro che è Training Day) sembra avere molte poche “cartucce” da sparare, cadendo su moltissimi (troppi) luoghi comuni sul conflitto mondiale e inscenando un “quadretto” familiare all’interno del carro armato, quasi fin troppo scontato. Se i “tipi” sono troppo confinati nella loro prevedibilità (avvicinando il tutto a personaggi da videogames), a dargli smalto è l’interpretazione attoriale: la squadra dei cinque soldati regala momenti irripetibili, con un Brad Pitt (tra i produttori) e un giovane Logan Lerman (già visto nel bellissimo Noi siamo infinito) entrambi in stato di grazia e tre spalle strepitose quali Shia LaBeouf (nei panni del cosiddetto “Bibbia”, in fissa con la religione e con l’aspirazione a diventare un leader: è il “saggio” del gruppo), Michael Peña (nel ruolo di un messicano [sic] “spara sentenze”: è lo strafottente, quello che fa tutto pensando poco al domani) e l’enorme Jon Bernthal (una sorta di gigante buono, dall’aspetto truce, ma che alla fine si rivela, forse, il più debole di tutti: è il “forzuto” della vicenda, tutto muscoli e poca umanità). Nonostante la loro prova attoriale, purtroppo l’attenzione del regista sembra concentrarsi sulla componente visiva: ecco che la terribile crudeltà bellica diventa una scusa per mostrare gambe mozzate, teste spappolate, corpi martoriati. E forse queste “immagini” ci sono state, è vero, ma mostrarle così, dirette e crude, sembrano perdere di autenticità, di potenza, di forza metaforica. L’immaginazione spettatoriale è costretta a cedere il passo all’orrore (meta)storico, che sembra essere condito troppo di cultura 2.0, senso dello splatter e mondo videoludico (si pensi anche alle sequenze degli attacchi, che sembrano sparatutto in prima persona). L’occasione di narrare la seconda guerra mondiale (forse) da un punto di vista inedito sfuma, nonostante l’ottimo lavoro alla fotografia di Roman Vasyanov (già all’opera in End of Watch – Tolleranza zero) e le musiche/sonoro di Steven Price (nello staff già del bellissimo Gravity di Alfonso Cuarón). Il primo immerge tutto in un grigio pallido, “quasi” anonimo, quasi a indicare la totale assenza di colori nell’animo delle persone, sprofondando la vicenda nel fango dell’orrore bellico (in questo caso, esemplare sono le svariate inquadrature che riprendono il carro armato passare continuamente sopra cadaveri mutilati e immersi nella terra, nel fango, nel sangue). Il risultato, in duo col regista, sono alcune sequenze degne di nota, come quelle del villaggio degli impiccati o del gruppo di tedeschi che fuggono dalle città a piedi, sorta di “zombie” che sembrano avere perso qualunque punto di riferimento. Il lavoro di Price, invece, si muove tra l’evocativo e la precisa e minuziosa cura del suono, giocando sul silenzio/fragore dei momenti pre/post attacco e i suoni della natura, rari e immaginativi, sopraffatti dai canti dei soldati nazisti e il tuonare dei cannoni. Fury (che oltre a “furia”, indica anche “rabbia”, sentimento molto più sentito nella pellicola), diventa un’occasione persa, l’ennesimo film “propaganda” contro il nemico (si pensi alle prossime elezioni statunitensi e al continuo pericolo terroristico) e che, poveri noi spettatori, siamo costretti a vedere ogni anno. Peccato perché di cose belle, insieme ad alcune sequenze di guerra, ce n’erano. Speriamo nella prossima, quanto più storica, ricostruzione.
Potrete vedere Fury in queste sale:
-NAPOLI
America Hall
Med Maxicinema The Space Cinema
Metropolitan
Modernissimo
-AFRAGOLA
Happy Maxicinema
-CAPRI
Paradiso
-CASALNUOVO
Magic Vision
-CASORIA
Uci Cinemas
-NOLA
The Space Cinema Vulcano Buono
-TORRE DEL GRECO
Multisala Corallo
-SALERNO
The Space Cinema Salerno