Ecco alcuni passaggi della lettera inviata dal superboss Raffaele Cutolo a La Repubblica. Sostanzialmente si tratta della versione integrale della missiva: «Ho una telecamera sul gabinetto. Non posso avere in cella più di tre paia di calzini e mutande. Vorrei mi spiegassero il senso. Ho sempre tenuto ad essere in ordine. Sono figlio di contadini ma la cura di sé è importante. La insegnavo ai miei uomini. È una forma di rispetto essere sempre impeccabili: ho ammirato Andreotti. Testimoniai per lui al processo Pecorelli. Nemmeno un grazie, ci sono rimasto male. Alcuni suoi colleghi mi mandavano gli auguri a Natale. tutti parolai i politici. L’ultimo che ho stimato è stato Berlusconi».

«Non vedo nessuno e nessuno si vede. Soltanto mia moglie e mia figlia, un’ora ogni due mesi perché non hanno i soldi per salire una volta al mese». «Mi hanno usato e gonfiato il petto, da Cirillo a Moro che, a differenza del primo, hanno voluto morto e infatti mi ordinarono di non intervenire: “leva ’e mani” mi disse Vincenzo Casillo. Poi mi hanno tumulato vivo. Sanno che se parlo cade lo Stato. Questa condizione di defunto in vita che ormai non mi va nemmeno più che la gente mi veda. Ai processi rinuncio alla videosorveglianza. Salto anche l’ora d’aria. Se per respirare un’ora devo farmi perquisire e sottopormi a controlli umilianti, preferisco stare in cella. Allo Stato servo così. Pensano sia ancora legato alla camorra. Ma quale camorra? Pago e pagherò fino alla fine ma non sono un pericolo. Sarei solo un pericolo se parlassi, ma non ce l’hanno fatta a farmi diventare un jukebox a gettone: il pentito va a gettone. Parla e guadagna. Un ulteriore oltraggio alla memoria delle vittime».

«Il caso Cirillo è stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna». «Non ho imperi, non esistono più cutoliano. Cutolo è morto. Resuscita per un’ora solo quando viene sua figlia e gli dà una carezza».«Ognuno fa le sue scelte. Barra ha avuto un’infanzia difficile, Ma ha rovinato il povero Tortora. Che Enzo Tortora era innocente lo dissi subito. Chiesi ai magistrati di essere interrogato. Non mi vollero nemmeno sentire».