Quindici euro al giorno, al massimo venti, per coltivare nei campi dell’area vesuviana, per tinteggiare pareti e per fare lavori da muratore. Almeno dodici ore sempre in azione, senza alcuna protezione né diritto, privi talvolta persino di un tozzo di pane o acqua e spesso anche con l’incubo di “sudare” senza poi ricevere neppure quel briciolo di compenso economico.
Il caporalato alle falde del Vesuvio ha il volto di quei ragazzi di colore, tutti clandestini, che non sono arrivate negli ultimi mesi: coloro che non hanno ricevuto accoglienza da profughi, che non vengono sistemati nei centri scelti dalla prefettura e che non hanno diritto a vitto ed alloggio, né a vestiti e spiccioli in tasca. E così si torna alle “vecchie abitudini”: mettersi in vetrina in attesa che passi l’imprenditore di turno a cui serve manovalanza a buon prezzo. “Il centro commerciale” della forza lavoro si trova alla rotonda di Trecase, laddove si riuniscono già alle 7 del mattino i ragazzi che vivono a Boscoreale, Poggiomarino, Boscotrecase e Terzigno. Una “fiera” che va avanti fino alle 14 inoltrate, quando chi non viene preso per nessun intervento di giornata toglie tenda e confida nella mattinata successiva.
Chi, dunque, viene caricato su qualche auto o furgone si sente fortunato, malgrado le almeno 12 ore di lavoro davanti, spesso sotto al sole cocente o al freddo e nonostante la paga da miseria ed il trattamento da schiavo. «Ci sono alcuni signori che non ci fanno fermare neppure per asciugarci il sudore – dice uno dei giovani di colore da quattro anni nel Napoletano – ma siamo contenti quando questo uomo viene e fa lavorare anche dieci amici ogni volta».