Bangkok: due fratelli di origine americana, gestiscono un traffico di droga, coprendo il loro giro con una scuola di boxe thailandese. Il maggiore dei due, Billy, uccide una prostituta minorenne. Il capo della polizia in pensione, Chang, arrivato sul posto, decide di lasciarlo al padre della vittima che gli spaccherà il cranio. Morto Billy sarà compito del fratello minore, Julian, vendicarne la morte, mentre dall’America arriva Jenna, madre dei ragazzi e immischiata in loschi traffici criminali. Sarà lei a ordinare la morte di Chang, innescando, però, una tremenda scia di sangue e vendetta, che non risparmierà nessuno. Arrivato quest’anno a Cannes, in concorso, Solo Dio perdona ha lasciato molti spettatori sul filo dell’interdizione.
Il regista, Nicolas Winding Refn, l’aveva annunciato: «O con me o contro di me» e in molti hanno deciso di scegliere la seconda opzione, coniando, per l’occasione, il termine di “nuovo Tarantino”, senza considerare, forse, che lo stile di Refn è ancora più preciso e comunicativo di quello del regista di Le iene. Se in Drive, lavoro precedente che aveva convinto pubblico e giuria, si sentiva forte il peso di creare qualcosa per le masse (forse giocando su una sorta di “oscura” linearità degli eventi), non rinunciando, comunque, a un certo “Refn style”, ormai immancabile e riconoscibilissimo in ogni sua pellicola, questo suo nuovo lavoro registico si presenta con una forte eredità verso tutti i film che l’hanno preceduto. C’è il mondo malavitoso e losco di Pusher (trilogia semi sconosciuta “maledetta”, girata come una sorta di documentario, ormai cult), c’è la violenza di Bronson (biopic al limite della linearità narrativa) e c’è l’onirico di Valhalla Rising-Regno di sangue (straordinario viaggio nell’epica nordica). In realtà ognuno di questi film è intercambiabile e ogni elemento di uno è presente (in minore o maggior forza) in tutti gli altri. Altro punto di unione (e di forza visiva estrema) è Larry Smith, direttore della fotografia, collaboratore per Refn proprio per Bronson (e il poco noto Fear X), che tuffa il mondo del regista in una “dimensione” (termine che indica anche una sorta di “passaggio” tra reale e non) completamente virata al colore rosso. Il rosso, colore della passione, della rabbia, della timidezza, del sangue, delle viscere. È da queste forti e dirette emozioni che si dipana tutto il percorso metaforico che Refn tenta di mettere in scena grazie a un triangolo di personaggi interpretati da attori in stato di grazia: Ryan Gosling (Julian), Kristin Scott Thomas (è Jenna, madre dei fratelli, che dal ruolo di Fiona di Quattro matrimoni e un funerale, del ’94, ne ha fatta di strada) e Vithaya Pansringarm (una vera rivelazione, è Chang).
Il regista, che scrive soggetto e sceneggiatura (forse unica nota dolente della pellicola), decide di far parlare le immagini, crea un percorso psicologico-creativo, attraverso una vicenda che, se rimane lineare con uno sviluppo semplice e diretto (tramite l’uso di dissolvenze e lenti movimenti di macchina), dall’altro mischia le carte in tavola con piccoli e geniali flashforwards, che, oltre a immergerci nella mente del protagonista principale, Julian (straordinario ancora Gosling: parla pochissimo, lascia recitare non solo il suo corpo, ma soprattutto il suo ego, regalando di nuovo una interpretazione immensa) non fanno che rendere più alta la tensione della pellicola. Si parla pochissimo in Solo Dio perdona, parlano inquadrature perfette, incastri narrativi/onirici spiazzanti, scene di combattimento che devono molto ai classici film di arti marziali, tematiche metaforiche sull’Arte, sulla Creazione, sull’Amore. Un film che riflette, attraverso l’attento uso della fotografia e della colonna sonora (davvero eccezionale, curata da Cliff Martinez, già collaudato in Drive: un mix di musica elettronica in pieno stile anni ‘80, con un tema musicale portante che sembra essere parte stessa della narrazione), sui rapporti interpersonali (sulla nascita, morte, non solo degli uomini ma delle Idee degli uomini), in maniera davvero profonda. Un film sulla potenza delle donne, sulla potenza della loro femminilità, sul terrore che innescano negli uomini :Jenna è una sorta di uomo con la gonna, violenta, ninfomane, assassina, probabile amante del figlio. Il titolo è ben preciso: nessuno, nemmeno noi stesso, nemmeno un Padre (Chang), nemmeno una Madre (Jenna) ci perdonano per colpe troppo grandi, per una vita non vissuta. Il protagonista, Julian (perno tra il passato e il presente, tra il Bene e il Male) è il Figlio: tramite di una maternità inesistente, cerca, attraverso un rapporto a distanza, di ricreare il rapporto con la Madre. Lo fa con una prostituta, mai toccandola (forse una presunta omosessualità?), lo fa con le mani. Mani che sono un altro elemento di spunto riflessivo della pellicola, sembrano essere una sorta leitmotiv visivo, compaiono come “innesco” di sequenze. Le mani che si chiudono per combattere, le mani che guidano il pensiero nell’atto creativo, le mani che aperte (come in molte inquadrature del film) accolgono un Figlio che esce dal ventre materno. Quello stesso ventre materno distrutto, deflorato, appagato nel finale, quelle mani che, nonostante tutto, si sono macchiate di errori (di vita) imperdonabili. Che nemmeno Dio perdonerebbe.
Il Figlio, dal (rosso) ventre materno uscirà allo scoperto, dove il Padre farà giustizia. A chiarire (o peggio a mischiare ancora di più le carte in tavola) probabilmente il senso di tutta la struttura narrativa, tematica e metaforica è la dedica che Refn lascia alla fine del film ad Alejandro Jodorowsky, maestro della regia (solo? “Jodo” è attore, scrittore, e, ultimamente, “psicomago”) in bilico tra stili, stile, onirico e grottesco, surreale e metalinguistico. Solo Dio perdona è un pugno, fortissimo e violento, nelle viscere dell’anima. Da vedere, apprezzare e mettersi dalla parte del regista. Non contro, perché nemmeno lui ci perdonerebbe.