Il giovane Nick Carraway sogna di fare lo scrittore. Ben presto,però, decide di dedicarsi alla Borsa, visto l’incredibile boom di affari che la Grande Mela offre nei primi decenni del ‘900. Si trasferisce a Long Island, nelle vicinanze di sua cugina Daisy, che abita alla sponda opposta del mare e ha sposato un vecchio amico di Nick, ricco ereditiero e giocatore di polo. Ben presto Nick incontrerà il suo noto e famoso vicino: Jay Gatsby, che organizza feste tutte le sere e vive in un suntuosissimo castello. Jay, schivo e dal passato oscuro, chiederà a Nick un favore, legato a una vecchia e incancellabile storia d’amore. Ma le verità torneranno a galla, in un vortice che non risparmierà nessuno. Ispirato e tratto dal bellissimo romanzo omonimo di Francis Scott Fitzgerald, giunge nelle sale Il grande Gatsby, sotto l’attenta regia di Baz Luhrmann, che ne cura anche la sceneggiatura, insieme a Craig Pearce. Sceneggiatura che, insieme alla durata, è forse l’unico anello debole di un film visivamente perfetto e interpretato magistralmente. Sceneggiatura che doveva per forza risentire della potenza e della precisione del lavoro originale di Fitzgerald, che puntava più a “raccontare” un’epoca attraverso l’anima, più ce con le immagini. Un film, Il grande Gatsby, che decide di puntare tutto sul visivo, con un utilizzo, a tratti davvero interessantissimo, ma prettamente spettacolarizzante, della terza dimensione, che regala comunque piacevoli momenti immersivi, facendoci riflettere sul tentativo del regista di “unire” i suoi due lavori precedenti forse più noti Romeo+Juliet e Moulin Rouge. Del primo c’è il tentativo di mettere in atto il meccanismo opposto, rendere “moderna” una narrazione svoltasi negli anni ‘20 americani: mentre nel Romeo+Juliet una prosa pomposa e centellinata, era messa in scena con un tentativo sperimentale di futurizzare la vicenda, qui accade il contrario, abiti e costumi d’epoca (straordinario sotto questo punto di vista il lavoro svolto ai costumi di Catherine Martin) immersi in musiche del giorno d’oggi. La colonna sonora infatti, è un altro dei punti di forza del film: Jay-Z (anche in veste di produttore), sua moglie Beyoncé, André 3000, will.i.am, Florence and The Machine, Jack White, Lana Del Rey sono solo alcuni dei nomi che tentano, attraversi brani inediti e rivisitati, di farci rivivere un’epoca. E qui il nesso con Moulin Rouge: oltre alle musiche (curatissime), buone anche le coreografie, rese ancora più intriganti da un uso interessante della scenografie (a cura sempre della Martin), come quasi a ricreare, attraverso un attento uso del 3D, una sorta di rappresentazione teatrale, con quinte che appaiono e scompaiono, enormi tendaggi e balli scatenati. Una sensazione di movimento enfatizzata benissimo dai rapidi movimenti digitali di macchina voluti dal regista, che cerca, appena può, di farci cambiare prospettiva, spostando la visione (e la visuale) verso nuovi personaggi, ambienti, attori. Il lavoro sul digitale (e 3d annesso) è ottimo, piazzando gli attori in scenari che richiamano perfettamente la mitica età del jazz tanto cara a Fitzgerald. Attori che, grazie a grandi interpretazioni, sono un altro punto a favore del film: giganteggia uno straordinario Leonardo Di Caprio, nel ruolo di Gatsby, sorta di dr. Jekyll/mr. Hyde che riesce, per quasi tutto il film, a battere la precedente interpretazione (sempre nel ruolo di Gatsby) di Robert Redford; mentre l’unico ad essere un po’ sottotono è proprio Nick, che è anche narratore della vicenda, interpretato da un quasi soporifero Tobey Maguire, che, tolte le vesti di Spider Man da tempo, torna a essere il timido introverso già noto ne Le regole della casa del sidro. Bravissimi gli altri coprotagonisti: Carey Mulligan è Daisy, angelo biondo in un mondo meschino e maschilista, mentre Joel Edgerton è Tom, marito facoltoso di Daisy, orrendo opportunista e uomo che “lancia” Nick nella sfrenata vita di città. Un quadrato (quello dei protagonisti) narrativo eccezionale, che trova, nella bellissima sequenza al Plaza Hotel, dove Daisy deve confessare tutto a suo marito, uno svolgimento perfetto, con un utilizzo, ancora una volta molto interessante, della terza dimensione (il coltello da ghiaccio che diventa elemento incredibile di suspence). Un film che cerca, dove l’essenzialità dei dialoghi del libro (forse) fallisce, di ricreare, visivamente un’ epoca e i suoi sogni, sogni che diventarono di tutti, attraverso un nuovo modo di guardare il mondo (e non solo la musica). Un film sulla potenza dell’Amore (quello vero, quello che ti cambia la vita), sulla sua/e solitudine/i (Gatsby appare e scompare come una sorta di fantasma, come una sorta di malato che vaga alla ricerca del vero motivo del suo vivere, cercando di afferrare ciò che di vero, l’amore, può esserci), sul suo restare sempre fedele a se stesso, sulla sfortuna, sui vizi e privilegi di una generazione, mischiata a lussi e passi sfrenati di danza. Una riflessione amara sul restare soli, sull’ “esistere” in quanto “esistenza” per gli altri, un film sul Passato, sulla voglia di tornare al passato: il campanello d’allarme dello scrittore, che non aveva, ormai, un buon rapporto con la moglie, ma che forse cercava in tutti di i modi di riavvicinare, cercando di afferrare anche lui, come Gatsby (metafora, infine, di un’ intera epoca), quella verde luce (di speranza). Un film davvero molto bello, Il grande Gatsby, che si arricchisce, attraverso la visione in 3D, di moltissime valenze visive. Otto pieno.
Home Rubriche L'inquadratura perfetta La potenza dell’Amore e la solitudine della jazz age: Il grande Gatsby