R, giovane zombie senza ricordi, passa le sue giornate nella noia, tra suoi simili. Durante una missione per trovare cibo nella zona infetta dai morti viventi, un gruppo di umani viene assalito da alcuni zombie affamati. Tra loro c’è R, che uccide e si nutre del fidanzato di Julie, acquisendone i ricordi. Decide così di salvare la ragazza e tra loro nascerà qualcosa che spingerà gli zombie a combattere i famelici “ossuti” e cercare di ritornare tra gli umani, finalmente accettati.

Qualcosa mancava alla filmografia zombie degli ultimi decenni: l’amore tra un morto vivente e una persona normale. Così il regista Jonathan Levine decide di adattare e portare sullo schermo Warm Bodies, best seller di Isaac Marion, lanciando un’esca appetitosa per i produttori di Twilight che, prodotta la pellicola, sentono già profumo di sequel (quello in libreria arriverà a breve, con The New Hunger), ma non di originalità. La vicenda, infatti, ricalca molto quella del vampiro Edward innamorato di Bella, tranne forse per il finale, molto meno traumatico e rischiando, così, di diventarne una sorta di parodia, invece di un film a parte.

Ma qualcosa di buono c’è davvero: innanzitutto il curioso cambio di prospettiva, con la vicenda narrata totalmente dal punto di vista di un morto vivente, sposando così il perno della narrazione verso qualcosa di inedito e, finora, poco sfruttato. Altro punto va per alla colonna sonora, curata da Marco Beltrami, che oltre alle musiche originali, contiene molti trascinanti brani del rock anni ’70-’80, unica spinta in più al lentissimo ritmo della pellicola. Purtroppo la sceneggiatura, redatta dallo stesso regista, lascia fin troppi inevitabili e sconcertanti vuoti, toccando punti di pura ridicolicità, ma che lasciano ampio spazio al sentimento del “diverso”, tematica però ampiamente affrontata già dalla saga tratta dai libri della Meyer, sfociando così in un’ampia prevedibilità dello sviluppo della vicenda.

Tra le prove non eccelse degli attori, menzione a parte merita John Malkovich, che, nonostante ci abbia lasciato nel dubbio sul perché mai abbia accettato di recitare in un film così, quando fa il cattivo, anche se compare per pochi minuti, lo fa sempre alla grande. Simpatici e impacciati i due protagonisti: Nicholas Hoult (ve lo ricordate il bambino di About a boy?) è R, ce la mette tutta, ma l’aria da bel tenebroso non fa che peggiorare la sua non convincete performance, mentre Teresa Palmer è Julie, dividendo la sua recitazione (e la sua somiglianza fisica) tra Scarlett Johansson e Kristen Stewart. Il titolo del film (“warm” significa “caldo”, ma allo stesso tempo anche “fresco”, come a dire “cadavere fresco”) riflette in pieno il concetto, molto semplice per carità, che fa da traino all’intero film: il corpo riscaldato dall’amore è un corpo diverso, con dei sentimenti da manifestare, non malato, ma sano, capace di superare e di alterare stati in apparenza infetti.

Il regista dirige, con piglio decisamente assente, un prodotto per teenager, non dimenticandosi però di omaggiare i classici del genere, come George A. Romero (che già aveva “accennato” alla “normalità” degli zombie in Il giorno degli zombie, in cui un morto vivente riprende “coscienza di sé” e ascolta con stupore un walkman o nel successivo La terra dei morti viventi) o il recente remake L’alba dei morti viventi o 28 giorni dopo, dove gli infetti non sono lenti, ma corrono. Infetti appunto. In Warm Bodies gli zombie sono morti o semplicemente infetti? Che la morte sia innanzitutto uno stato dell’anima, prima che del corpo? Ultimo punto: gli “ossuti”.

Sono prodotto finale della “mutazione-zombie”, scheletri affamati che daranno filo da torcere ai protagonisti, avvalorando l’ipotesi che lo stato di zombie è solo qualcosa di passeggero, di infetto, ma, sostanzialmente, vivo. La pellicola di Levine così si appresta a essere un leggero e piccolo cult, destinato a cadere nel dimenticatoio, anche se avrebbe potuto avere uno sviluppo, regia, interpretazione e rielaborazione molto migliore. Eccolo l’amore targato zombie nell’era 2.0.