Un anziano e noto esperto d’arte, Virgil Oldman, viene contattato da una misteriosa giovane, Clare, per valutare ciò che resta dei beni di famiglia, in una diroccata villa. L’incontro con la ragazza, malata di agorafobia, cambierà per sempre la sua vita. Insomma Giuseppe Tornatore sembra prenderci gusto a stupirci. Forse però, stavolta, ha alzato troppo la posta in gioco.

Se ne La sconosciuta era riuscito a tenerci col fiato sospeso fino all’ultima inquadratura, nel suo nuovo lavoro, La migliore offerta, il fiato lo si tiene sospeso per quasi tutto  il film, ma lo si perde, poi, piano piano, come a recuperare forza dopo una corsa tenuta con passo a mille. Il regista, in realtà molto furbamente, confeziona una sorta di film-matrioska, che solo negli ultimi minuti, regalando un classico e ben congeniato “colpo ad effetto”, mostra la sua natura di crime-movie.

La citazione è dietro l’angolo e le metafore si buttano: se da un lato si omaggia Scorsese di Hugo Cabret (ma dandogli “sensi” addirittura opposti), con la costruzione dell’automa di Jacques da Vaucanson, dall’altro si fotocopiano molte pellicole dedicate ai grandi “furti” impossibili: Ocean’s Eleven, The Italian Job e Confidence, solo per citarne alcuni, aggiungendo l’omaggio dichiarato a Hitchcock, Avati degli anno’70 e molto cinema di “genere” degli anni indietro. La metafora dell’ Amore per (e del)l’Arte come specchio non solo del reale e dell’animo umano, ma di molto cinema contemporaneo è tesa allo spettatore più attento ai continui rimandi extranarrativi tornatoriani.

La sceneggiatura, che rischia spesso pericolose cadute di stile, tiene serrato il ritmo che, purtroppo, la macchina da presa non riesce a dare, appiattendosi su un girato dosato e pacato, con qualche (pochi per la verità) picchi di stile. La differenza la fanno alcuni elementi singoli, alcune “scelte giuste”: l’attore Geoffrey Rush, nella parte del protagonista, straordinario nel trasudare emozioni dal semplice primissimo piano del suo rugoso volto da antiquario, impeccabile nel regalare, rendendola quasi palpabile, la tempesta emotiva di cui è vittima il suo personaggio, sorta di eremita improvvisamente in preda ai sensi; e in secondo luogo, il direttore della fotografia Fabio Zamaron, già vincitore di svariati premi con La sconosciuta, che regala alla pellicola, le giuste vibrazioni cromatiche, il tocco di emotività, che una regia fredda invece riesce a bloccare.

Sylvia Hoeks (Clare) prova ad entrare (e a tratti ci riesce) nel personaggio, ingannando noi e il povero Oldman, ma rimane comunque sotto tono (tra l’altro aveva già recitato una parte simile, in Frankie, del 2005, di Fabienne Berthaud), così come Jim Sturgess, che impersona Robert, sorta di opposto/rivelatore del protagonista A tratti fuori “tono” anche la colonna sonora, scritta dal “nostro” Ennio Morricone. Ma in tanti, forse, non si sono lasciati sfuggire la profonda somiglianza che questa pellicola ha con un altro film italiano del 2006 diretto da Paolo Sorrentino. Stiamo parlando de L’amico di famiglia, dove uno strozzino (eremita anche lui, anche lui senza contatto con le donne, ammaliato dal suo “lavoro”) viene preso ben bene per i fondelli da una donna che, casualmente, fa l’ingresso nella sua vita.

Sorrentino realizzò all’epoca un capolavoro, Tornatore realizza invece un “piccolo” capolavoro, come è suo solito ultimamente, volando basso, ma riuscendo comunque a tenerci, lentamente, in attesa della “sua”, personalissima, migliore offerta.