La nostra terra è fragile e quando piove da noi aleggia la paura. La paura che una montagna possa franare travolgendo le case, la paura che il pavimento possa sgretolarsi sotto i piedi, che una strada possa aprirsi e ingoiare auto e persone. Esistono centinaia di episodi che testimoniano questa triste verità, fatti di cronaca che si ripetono con una costanza impressionante, quasi aritmetica, come se fossero divenuti consuetudine. E forse lo sono divenuti per davvero.
Basta spostarsi a ritroso nel tempo, riavvolgendo il nastro della memoria, e ricordando quello che accadde a Sarno in quel maledetto 5 maggio del 1998, passando per le innumerevoli frane che in questi anni hanno colpito la Calabria, per la collina sgretolata di Giampilieri, a Messina, fino ad arrivare ai disastri avvenuti lo scorso anno in Toscana e in Liguria.
Tutte queste sciagure sono riconducibili ad un accadimento naturale noto come dissesto idrogeologico, un insieme di fenomeni che modificano il territorio in tempi relativamente rapidi e che, manco a dirlo, sono strettamente collegati al problema dell’abusivismo edilizio. Se è vero infatti che soprattutto nel nord del Paese l’agricoltura intensiva, il disboscamento selvaggio e l’abbandono delle aree montane contribuiscono in maniera rilevante a rendere la situazione drammatica (anche se le tante infrastrutture stradali e ferroviarie ad alto impatto ambientale giocano un ruolo importante in tal senso), nel meridione d’Italia il maggior responsabile di tale piaga è senz’altro l’abusivismo edilizio, l’inarrestabile cementificazione della nostra terra e la impermeabilizzazione del suolo che ne deriva.
E’ un fatto notorio che togliendo piante e radici e sostituendole con fondamenta di cemento si renda la terra instabile, pericolante, potenzialmente letale. E’ un fatto tristemente notorio, ciononostante per evitarlo, ancora nulla di concreto è stato fatto. O meglio qualcosina, una legge per la precisione, la 225 del 1992, quella istitutiva del Servizio Nazionale della Protezione Civile, la quale nel menzionare brevemente il fenomeno, occupandosi di descrivere la natura dell’attività di prevenzione, di fatto non ha disciplinato compiutamente la materia e dunque ha lasciato il problema privo una valida soluzione. Un’occasione persa.
Eppure i dati sono allarmanti: secondo stime ufficiali del Ministero dell’Ambiente 2.150.410 ettari di suolo italiano ricadono in aree classificate ad alto rischio idrogeologico, il 7,1 % del territorio nazionale si troverebbe in grave pericolo, secondo i dati di Legambiente addirittura due comuni su tre. Parliamo di centinaia di scuole e ospedali, di migliaia di private abitazioni che rischiano di essere danneggiate e in alcuni casi travolte dalla furia della natura.
Sempre secondo i dati del Ministero dell’Ambiente occorrerebbero circa 40 miliardi di euro per mettere in sicurezza l’intero territorio nazionale. Una cifra enorme è vero, pur tuttavia irrisoria se paragonata a quella dei danni causati dalle frane e dalle alluvioni. Insomma, una cifra considerevolmente inferiore a quella spesa per tamponare tutti i disastri che si sono susseguiti nel nostro Paese: soldi spesi male, senza un’adeguata programmazione, usati per rattoppare anziché risolvere e dunque sperperati e mai investiti.
A questo punto si potrebbe puntare il dito contro l’assenza di un’adeguata pianificazione politica o contro il disinteresse dei partiti, per non dire malafede, qualcun altro potrebbe obiettare che nel bilancio dello Stato non possono essere stanziati fondi necessari per risolvere il problema anche se poi, come detto, puntualmente occorre intervenire per far fronte alle emergenze; altri, addirittura, potrebbero malignare che a qualcuno convenga che le cose restino così come sono, che per qualche delinquente lo sperpero di denaro pubblico sia più conveniente di una spesa oculata, che il giro d’affari ma anche il clientelismo politico che ruota attorno all’abusivismo edilizio e che troppo spesso coinvolge interessi criminali, sia molto più cospicuo di quello relativo alla messa in sicurezza del territorio.
La parola d’ordine di fronte ad una simile situazione dovrebbe essere prevenzione, ma anche legiferare, contrastare, curare il male alla fonte, debellare una delle principali cause del problema, l’abusivismo appunto.
E invece da troppi anni sentiamo ripetere le solite frasi di cordoglio quando un nuovo disastro dissemina distruzione e morte. Noi non possiamo che prendere atto della sistematica incapacità del legislatore di limitare la cementificazione illegale della nostra terra. Non ci resta che sperare che il vento possa cambiare e soprattutto che non piova.