Cos’hanno in comune un ciuccio, una mozzarella e un castello? Apparentemente nulla. Eppure un sottile filo rosso (o forse azzurro) unisce questi tre elementi. A scuola di giornalismo t’insegnano che questo mestiere è molto più di una qualifica professionale perché col passare degli anni tende a diventare un habitus, un comportamento abituale, una vera forma mentale. E io fedele agli insegnamenti di grandi firme de Il Mattino (la nave scuola dove mi sono formato) non lascio mai cadere la penna, permettendo così alla curiosità di rapirmi. Perché è solo lei la vera molla che ti porta a cercare le notizie.

Ve la faccio breve: la scorsa settimana sono stato ospite al teatro del centro sociale di Battipaglia ad una manifestazione dedicata ai bambini. Uno di quei momenti dove scopri che l’esperienza di regalare un sorriso fa bene anche a chi lo dona, non sono a chi lo riceve. Uno slancio d’altruismo che dà fiducia in noi stessi e nel prossimo. Mentre attendo che il direttore di palco mi autorizzi ad entrare in scena, decido di prendere un caffè.

Esco dal backstage ed entro in posto tutto colorato d’azzurro con in fondo un angolo bar: è un Club Napoli. La mia attenzione è subito catturata da un quadro di tecnica semplice (pennarelli e pastelli su cartoncino) con a margine una dedica e una firma: w il Napoli, Aurelio De Laurentiis. Mi viene incontro Isidoro Vietri, il presidente. «Dottò questo quadro è il fiore all’occhiello del nostro club dedicato proprio a De Laurentiis che l’ha impreziosito con il suo autografo in una giornata per noi storica all’Hotel Vesuvio di Napoli lo scorso anno».

In un formato poco più grande di un normale foglio A4 c’è tutta l’essenza di questo territorio: la passione per la squadra del cuore, la bontà della mozzarella e l’amore per la propria città. Chiedo dell’autore. «Una ragazza giovanissima che frequenta il club del centro sociale e guarda con noi la partita ogni domenica in teatro». Insieme a questo dinamico signore dai capelli bianchi, con tanto di sciarpa del tifoso doc al collo, provo a tracciare una linea immaginaria che, entrando dalla porta del castello, scorge il ciuccio con la forchetta in mano mentre mangia quello che qui amano definire «l’oro bianco».

La storia di Battipaglia comincia con la costruzione del castello, detto anche castelluccio. Siamo nel 1080. Donato alla Chiesa salernitana dal normanno Roberto il Guiscardo, passerà poi ai principi Pignatelli fino a che, negli anni Venti, sarà interamente ricostruito dall’architetto Farinelli. L’edificio, simbolo della città di Battipaglia con i suoi 51mila abitanti, oggi di proprietà privata, non è in un buono stato di conservazione e necessita di costosi interventi di recupero. Perché il nome Battipaglia? Semplice. Nel XIII secolo vengono costruiti tre casali: uno annesso al Castello, un altro nelle vicinanze del Ponte sul fiume Tusciano e il terzo a Santa Maria. Ogni casale dispone di un’aia per la trebbiatura del grano che avveniva battendo la messa delle spighe con delle pertiche: da qui il toponimo.

La mozzarella? Secondo fonti storiche molto accreditate è sicuramente nata in Campania, probabilmente ad opera dei Saraceni che portarono alla foce del Garigliano il bufalo indiano o bufalo d’acqua, grosso erbivoro della sottofamiglia dei bovini. I saraceni venivano usati dai duchi longobardi, nel Medioevo, come mercenari sia negli scontri fra loro che contro i bizantini. Durante le loro scorribande prendevano  prigionieri numerosi monaci benedettini ai quali insegnavano la tecnica della produzione dei formaggi a pasta filata. Il segreto di questo prodotto altamente tipico e gustoso sta nella produzione: la mozzarella viene mozzata (da qui il nome) e si può riconoscere per la cicatrice che ha sulla sommità (indice di produzione artigianale).

E veniamo al ciuccio. Se da un lato il simbolo indiscusso della storia del Napoli è conosciuto da tutti, è altrettanto vero che sono in molti a non conoscere come sia nata l’idea di accostare il ronzino alla squadra azzurra. La storia è un  po’ lunga. Provo a sintetizzarla prendendo in prestito uno scritto del giornalista napoletano Felice Scandone, fondatore del Mezzogiorno Sportivo, caduto in guerra nel 1940 su un aereo precipitato nel cielo libico. «In una Napoli d’altri tempi un contadino, Fichella, curava un vecchio asino tanto carico di acciacchi e piaghe al punto da avere anche la coda in pessime condizioni. Insomma, per dirla alla napoletana, era fraceta.  Il Napoli al primo anno di Divisione Nazionale era paragonabile ad un povero vaso di terracotta tra vasi di ferro. In un intero campionato non racimolò che un misero punto: non riusciva nemmeno a trasformare in goals i calci di rigore. Era, insomma, come l’asino del povero Fichella, del quale si racconta che vegliasse la notte (Fichella, non l’asino, intendiamoci) per cogliere i fichi del suo orto e caricare il carretto che doveva trasportare le ceste al mercato. Ma l’asino dopo poche centinaia di metri si abbatteva al suolo e non c’era verso di farlo rialzare. La classica corsa dell’asino, insomma».

Come e perché il ciuccio si sia trasformato in un bizzarro cavallino, sempre pronto a correre e sorprendere, è poi storia che tutti conoscono. Tant’è che a Napoli il ciuccio è sacro. E se è vero che, come dice il vecchio adagio, «chi nasce asino non può morire cavallo», forse il destino della squadra ha dimostrato il contrario.

«Il ciuccio apparve in carne e ossa per la prima volta in pubblico il 23 febbraio 1930 – aggiunge Isidoro -, si giocava una famosa Napoli- Juve finita 2-2 con una travolgente rimonta del Napoli in svantaggio di due reti e poi imbattuto, grazie a due reti Buscaglia. Fu in quell’occasione che, tra gli applausi dei tifosi, spuntò un asinello infiocchettato d’azzurro che fece il giro del campo, preceduto e seguito da cartelli con la scritta: «Ciuccio, fa tu!».

E mentre m’abbandono ad una piacevole risata, si avvicina Luigi De Vivo (membro del consiglio direttivo della onlus La Perla che mi ha voluto ospite alla manifestazione): «Lei è uno di quei giornalisti che sa coltivare il valore della solidarietà, quello autentico, fatto di persone che sanno guardare oltre i propri interessi personali, che sanno dare speranza». Ritorniamo in sala. È ora di distribuire i doni ai bambini.

Pasquale Iorio >>> prox appuntamento domenica 20 gennaio >>> seguitemi su Fb