Scrivere per la rete è bizzarro, può passare il lettore giusto da un momento all’altro… Oggi inauguro la mia nuova rubrica domenicale sul quotidiano on-line Il Fatto Vesuviano che batterà in lungo, in largo, in profondità, luoghi e persone, per una «Domenica Vesuviana» tutta da scoprire. Del resto essere giornalista non è fare esercizio di bella scrittura. Significa guardare, capire e raccontare. Stare fuori molte ore e tornare a casa con il taccuino pieno. Solo allora cominciare a svuotarlo e restituire al lettore il senso di quello che hai visto. O scoperto se, come me, si prova gusto a cercare cose difficili. Perché, come amava ripetere Agatha Christie, «bisogna andare a cercare le cose, non aspettare che cadano in testa». Seguitemi, ci conto!
In settimana, chiacchierando con degli amici appena tornati da Parigi, è venuta fuori la famosa leggenda dello sguardo della Gioconda che, si dice, segua ovunque lo spettatore. Da qualsiasi angolazione si guardi il dipinto più visto, più protetto e più enigmatico del mondo. Louvre a parte, ho scoperto che anche nel vesuviano – ricco di storia e di arte – c’è un quadro misterioso. Non è certo la Monna Lisa, intendiamoci. Ma una tela che custodisce una leggenda tutta da gustare. E questa domenica andiamo a scoprirla.
Dopo un fumante caffè nel cuore di Palma Campania mi lancio alla volta del borgo Castello. Per arrivare dalla piazza ci vogliono poco più di dieci minuti. Una strada fatta di curve e scorci panoramici. Non c’è mai traffico. Ho con me il taccuino e la macchina fotografica. Parcheggio nella piazza principale di questa frazione medioevale arroccata alla collina e conto una decina di persone. Sono le undici. «Tutti gli altri sono in chiesa», mi dicono. M’incammino per una stradina dove un’auto passerebbe a stento e dopo pochi attimi sbuco nel piazzale della parrocchia di San Giovanni Battista, proprio di fronte ai ruderi di quella che fu la fortezza che ha dato il nome a questo posto. La facciata è in stile barocco. Entro. La chiesa è piccola: una sola navata e due altari laterali in stucco. C’è gente.
Sulla parete di fondo domina il dipinto di San Giovanni Battista datato 1773 e firmato Serio. Ma la mia attenzione viene subito catturata da una Madonna con Bambino: Santa Maria a Miano. La osservo con attenzione e, per un attimo, vengo catturato dal suo sguardo che – anche in questo caso – sembra fissarmi, seguirmi, da qualsiasi angolo io la guardi. Dopo la messa mi fermo a parlare con degli anziani. Sono proprio loro a riempire diverse pagine del mio taccuino e svelare il mistero di questo dipinto. Per un attimo un pensiero mi rapisce: se da secoli il racconto popolare continua a trasmettersi di bocca in bocca come patrimonio culturale significa che, sotto sotto, qualcosa di profondo c’è. Una storia un po’ vera e un po’ inventata, come tutte le leggende. Siamo a cavallo tra il ‘600 e ‘700. Una muta di cani inferociti, avidi di preda, insegue un fuggiasco, tale Amiano, che impaurito comincia a scappare tra le viuzze sterrate che si intrufolano nella montagna di Palma Campania. Corre, corre sempre più veloce fino a farsi mancare il fiato.
Il suo corpo, stremato, non ha più forze. Trova riparo nel bosco rigoglioso. Cammina tra castagni, roverelle, lecci e qualche quercia. Con i violenti alle calcagna invoca la Madonna e, illuminatagli la mente dal Signore, scorge un fitto cespuglio di rose canine, con ai piedi ginestre e orchidee selvatiche, dietro il quale si rannicchia e continua a pregare. Qui scorge nel terreno una piccola immagine della Madre di Dio. Sente la rabbia di quei cani sempre più vicina e i brividi della morte gli percorrono la schiena. C’è silenzio. L’unico rumore è quello del suo cuore che oramai batte a mille. Promette alla Vergine che, se fosse riuscito a cavarsela, come voto di ringraziamento avrebbe cambiato vita e fatto costruire una Chiesetta proprio su quel terreno che gli aveva dato salvezza. I cani dopo ore e ore di ricerche gettano la spugna e l’uomo ritrova il dono della libertà. E della vita.
Nei giorni a seguire si mette subito all’opera per costruire quella cappella «per grazia ricevuta». La storia di Amiano commuove tutti gli abitanti di Castello che lo aiutano a trasportare mattoni, cemento e travi per edificare quella chiesetta che prenderà il nome di Santa Maria, per l’immagine della Vergine che illuminò la strada della salvezza di quell’uomo. Ed così che da centinaia di anni, con spirito di fede, gli abitanti del posto ringraziano la Madonna con dei festeggiamenti solenni. Inizialmente il pomeriggio della domenica di Pasqua alcuni cittadini si recavano alla solitaria chiesetta per prendere il quadro e trattenerlo in adorazione nella parrocchia del borgo. Con una solenne processione, poi, lo riaccompagnavano a mezzogiorno della mattina del lunedì in Albis. Intorno al 1920 un violento incendio, però, provoca la distruzione di quell’icona.
Ed è così che i «castellani» commissionano al pittore palmese Pietro Salvatore Caliendo (che durante i suoi soggiorni tra Germania e Svizzera conobbe Pablo Picasso anche se non volle aprirsi alle nuove esperienze artistiche del primo Novecento) il rifacimento del dipinto. Gli anziani si dicono certi che il «professore» – così come lo chiamavano qui – alla ricerca di immagini che conferissero sembianze umane al corpo ed al volto della Madonna e del bambino tra le sue braccia, abbia trovato ispirazione in persone del posto. E c’è chi è pronto a fare addirittura i nomi. Molto singolare è, come dicevamo, l’espressione degli occhi della Vergine che, oltre a dare la sensazione di seguire lo spettatore, pare vogliano comunicare qualcosa. Insieme ad alcuni autoctoni decido di dare uno sguardo alla chiesetta. Camminiamo per una quindicina di minuti lungo un sentiero naturale di un chilometro circa che fiancheggiava a valle una necropoli del IV – V sec. a.C.. Quando resti di muratura richiamano la mia attenzione alcuni ragazzi mi dicono che siamo arrivati.
La copertura in legno è completamente crollata, le strutture perimetrali in muratura presentano, invece, notevoli dissesti. È dagli anni Cinquanta che non si celebra più Messa. Chiedo perché il nome Santa Maria a Miano? Così come riportato anche sulle immaginette. «Così si chiama da sempre» mi rispondono frettolosamente. Beh, rifletto sull’aggiunta «a Miano» e la prima ipostesi che azzardo è questa: la cappella probabilmente ha preso il nome di Santa Maria Amiano – e quindi poi per errori nella trascrizione è divenuta «a Miano» – perché legata al nome del suo fondatore. Se, però, si pensa che sul territorio di Palma Campania esiste anche la strada «Cupa di Miano» (da via Ianillo fino alle vie Pucecca e Turiello) allora il termine merita qualche considerazione in più.
«Miano» potrebbe essere collegato ai numerosi toponimi locali concernenti terreni e fondi rustici o, più verosimilmente, ad una contrazione del nome Emiliano o Massimiano. Ma le curiosità sul quadro di Santa Maria a Miano non finiscono qui. Dinnanzi ad esso il francescano britannico John Bradburne, ospite a Palma nei primi anni Cinquanta, fece voto di castità perpetua. E proprio per quell’uomo – che prestò cure ed assistenza ad una colonia di lebbrosi prima di rimanere vittima della guerra civile nello Zimbabwe – è in corso il processo di beatificazione.
>>> Alla prossima domenica, vesuviani! _ xmas12_ auguri_ di_cuore_