Al nobile Washizu, al rientro da una battaglia col compagno Miki, viene predetto, da uno spirito, la salita al trono. Ma la profezia annuncia anche che il figlio di Miki sarà re. Istigato dalla moglie, Washizu uccide il re instaurando un trono di tirannia, commissionando anche la morte di Miki e suo figlio, ma il figlio dell’amico sopravvive gridando vendetta. Washizu torna dallo spirito, che gli dirà che soltanto quando gli alberi della foresta cammineranno verso il suo castello, egli verrà sconfitto. La mattina dopo, rami d’albero (che nascondono l’esercito ribelle guidato da Miki) avanzano verso la fortezza, protetti dalla nebbia. Washizu impazzisce e viene ucciso dai suoi stessi soldati.
Libera (re)interpretazione dell’opera shakespiriana Macbeth (di cui il regista era profondo ammiratore), Il trono di sangue di Akira Kurosawa del 1957 si presta a molte osservazioni. Il legame con la tragedia classica è evidente fin dalla prima sequenza, dove un coro “narrante” (come nel teatro greco) accompagna delle sinistre panoramiche del castello. Come tutte le trasposizioni di opere teatrali si cerca di tener vivo l’ “essere teatro” della vicenda, non accostandosi troppo al testo, ma lasciando all’azione e gli attori il ruolo da “protagonisti”. I campi/controcampi sono pochissimi e la frontalità della messa in scena fondamentale. Molte sequenze sembrano girate davanti a un palcoscenico, dove gli attori recitano in pieno stile teatrale: non c’è una sola inquadratura dove un personaggio pensi, facendoci ascoltare i suoi pensieri, i gesti contano più delle parole, la messa in campo dei pieni e dei vuoti più dei monologhi. E qui un’ulteriore legame con l’arte: il posizionare, come su una tela (o su un palcoscenico) oggetti, persone, porte. Si veda la costruzione della sequenza dell’annuncio della morte del figlio di Washizu: lui è lì, immobile, corpo “vivo” in una composizione scarna, ma al tempo stesso incredibilmente comunicativa: una spada, un elmo. Una mano apre la porta, aprendo uno “spazio altro”, uno spazio che credevamo invalicabile, perché “quasi” spettatoriale. Gli interni sembrano labirinti che permettono l’entrata e uscita dalla scena degli attori, che enfatizzano la loro mimica e i loro pochi movimenti (altra caratteristica del teatro eroico e del teatro giapponese) che sono a volte accentuatissimi, se non dei veri e propri fermi immagine (l’inquadratura in cui Washizu uccide le guardie del re o il sicario), dei veri e propri “quadri in movimento” (una sorta di omaggio al pre-cinema, come l’inquadratura delle lanterne dietro la porta dei servitori di Washizu, che annunciano che la stanza è pronta).
Un aspetto interessante è la presenza “opprimente” della nebbia. La nebbia è inconsistenza, qualcosa che non si può toccare: tutto il film è una grande epopea dell’ invisibile, del sospetto, dello “scoprire”, come quasi tutte le opere di Shakespeare, colme di bugiardi, sospetti, paure, incredulità, gelosie, brame di potere. Quando ci svegliamo dal sogno la nostra vista è annebbiata: a tratti il film, infatti, sembra essere un sogno, acquistando le sue caratteristiche di visionarietà e confusione visiva tipiche dello stato onirico. Allora Il trono di sangue si rivela essere non solo un grande film “teatrale” ed epico, ma anche una grande riflessione sull’inconscio e sull’inutilità della guerra, evidente da molte scelte stilistiche: inquadrare le scene di battaglie, sempre da lontano, scorrendole, non per renderne la “grandezza”, ma per restarne ancora più distante; il non far vedere cadaveri o una goccia di sangue (cosa strana per un “dramma” epico e vendicativo); e ancora: Kurosawa ci inganna ancora una volta, mostrandoci la scena in cui Washizu insegue il figlio del re (che prima voleva uccidere proprio Washizu e poi scappa insieme a un alleato alla volta del Castello). Tutta la sequenza della cavalcata è “onirica” (per quanto detto sopra), ma è interessante notare come il regista ce la fa vivere come se i due “gruppi” a un certo punto dovranno scontrarsi (come i film western in cui i soldati, suonando la “carica”, partono alla volta degli indiani). Mettendo da parte la scelta del “buono” che insegue “il cattivo”, Kurosawa ci fa capire (con questa scelta stilistica) che in guerra non ci sono scelte “buone” o “cattive”, ma si diventa tutti della stessa razza, tutti uguali: pazzi armati di brama di potere.